Le piazze ci parlano, bisogna saperle ascoltare

L'editoriale di Francesca Chiavacci

Questa storia delle sardine è una bella storia. In queste settimane, da quando i quattro giovani bolognesi si sono dati appuntamento sotto l’insegna 6000 sardine, l’onda della mobilitazione ha inviato un segnale importante. Potremmo aggiungere, l’ennesimo, alla luce di altre mobilitazioni che hanno avuto luogo in questi mesi, magari tematiche ma sempre con una grande volontà di agire il cambiamento. Spontaneità, autorganizzazione, tanti i giovani e le ragazze presenti che, anche con sensibilità differenti, si sono uniti con una volontà precisa: basta con il linguaggio d’odio, con la spregiudicata strategia della costruzione del nemico per fini di consenso elettorale e basta con la politica della mistificazione.
Rivolgersi ai cosiddetti populisti dichiarando che la festa è finita e pretendendo che politica riacquisisca il suo ruolo non è poca cosa.
È la prima volta, dopo molto tempo, che mobilitazioni di massa di questo tipo si pongono non tanto come rifiuto di qualcosa ma come desiderio di partecipazione e ricerca di rappresentanza politica.
Un patrimonio che non va disperso. Sta rappresentando, in tutte le città dove si è manifestato, un vero e proprio movimento di opposizione alle politiche razziste e xenofobe, per il timore (concreto?) che possano ritornare egemoni e al governo.
Non vogliamo unirci agli esegeti o, peggio, a tutti coloro che vorrebbero ‘insegnare’ alle sardine come fare. O, peggio ancora, unirci a coloro che criticano il movimento delle sardine come privo di contenuti o di progetto politico. O addirittura a coloro che nella visione paranoica ci vedono sempre qualcun altro dietro. La nostra associazione è stata e sarà in quelle piazze, le abbiamo animate e non possiamo essere che contenti.
C’è un punto importante, però, che parla alla sinistra: la richiesta di politica, di unità, di identità valoriale (il manifesto delle sardine si rifà a valori importanti, positivi, non è vero che è solo ‘contro’) che vorrebbe trovare uno sbocco, anche istituzionale.
Non basta stupirsi, o rallegrarsi, occorre ascoltare e saper diventare interlocutori politici delle richieste e dei sentimenti che emergono.
Significa anche fare autocritica, anche e soprattutto dare rappresentanza a questa volontà di cambiamento. Significa lavorare con umiltà, recuperare credibilità e fiducia, agire con coraggio. Leggere in un appello «Torneremo a dare coraggio ai buoni politici dicendo loro grazie» restituisce speranza e il dovere di impegnarsi in questa direzione.