La condanna di Karadzic non sanerà le ferite

Intervista ad Hasan Nuhanović, testimone del massacro di Srebrenica

Pochi giorni fa il Meccanismo residuale per i Tribunali Penali Internazionali (entrato in funzione nel 2013 per portare a termine il lavoro del ICTY), ha condannato in via definitiva l’ex presidente dei serbo-bosniaci, Radovan Karadžić al carcere a vita per il genocidio di Srebrenica e altri crimini contro l’umanità (tra cui l’assedio di Sarajevo). Ne abbiamo parlato con Hasan Nuhanović, testimone diretto di quanto successo a Srebrenica a luglio del 1995, essendo stato traduttore presso il battaglione dei caschi blu olandesi stanziato nella safe area. É stato inoltre testimone chiave di molti procedimenti per crimini di guerra e promotore del processo contro l’Olanda per corresponsabilità nel genocidio.

Nuhanović: «Come cittadino della Bosnia-Erzegovina mi auguro che la sentenza possa portare a qualche cambiamento positivo. Se non porta a qualcosa di positivo, a cosa serve questa sentenza? Questa condanna non significa la fine del trauma che vivono i sopravvissuti al genocidio che affrontano gli autori dei crimini contro l’umanità in tribunale o che li incontrano giornalmente nei luoghi dove sono tornati a vivere [N.d.A: a Srebrenica Nuhanovic ha perso la madre, il padre e il fratello]. Qualche giorno fa un signore mi ha detto che non se la sentiva di testimoniare, perché le indagini sui criminali di guerra hanno creato una situazione di insicurezza. Si sente in pericolo. Io gli ho chiesto e come pensi che sia per me? Mi ha risposto che lo sanno tutti che per me questa storia, la battaglia per la verità e la giustizia, non è mai finita. Cosa voglio dire? Che esiste una parte della popolazione bosniaco-erzegovese che ha l’obbligo di farsi carico della testimonianza, mentre altri possono tirare il freno a mano o tirarsi indietro. Non posso rispondere alla domanda se sono contento per la condanna di Karadžić. È una persona che non ho mai incontrato nè conosciuto personalmente. Non c’era lui sul terreno a luglio del 1995. A livello personale, la cosa che mi fa più male è che una delle persone coinvolte nell’uccisione di mia madre lavora in un’istituzione pubblica a Sarajevo, vicino a dove lavoro io. Karadžić è un anziano di 73 anni, che trascorrerà il resto della sua vita in galera. Quello che ha fatto quando era al potere rimane e rimarrà come conseguenza che ha influenzato le nostre vite e che continuerà a farlo per il futuro. L’utilità minima di una sentenza di questo genere dovrebbe essere che io possa dire a mia figlia: ‘Non avere paura, non accadrà più un genocidio da queste parti’. Ma è la verità? Non vedo ragioni per esultare per questa condanna. Il trionfalismo stride con il significato della tragedia che è successa. Non c’è nessun bisogno di applaudire. Dopo il genocidio e la condanna per genocidio non si applaude».