IL FILM. Parasite, Palma d’Oro a Cannes

Il consiglio della settimana

La famiglia Kim (composta dal padre Ki-taek, la mamma Chung-sook e i figli Ki-woo e Ki-jung) vive di espedienti in un seminterrato fatiscente di Seul, occupando il tempo con piccoli lavoretti e con qualche truffa, lasciandosi alle spalle decine di avventure imprenditoriali fallite.

Il precario equilibrio familiare viene rotto da Min, giovane universitario che – causa trasferimento all’estero – chiede all’amico Ki-woo di sostituirlo come tutor d’inglese della figlia dei Park, una ricca famiglia che vive in un elegante villino dotato di ogni lusso, governante inclusa.

Il ragazzo si presenta alla lezione di prova con un curriculum contraffatto e riesce ad ottenere la fiducia di Yeon-kyo, moglie del signor Park, interpretata magistralmente da una Cho Yeo-jeong perfettamente a suo agio nel ruolo della ‘semplice’ e cortese padrona di casa, di una bellezza desolante quanto la compassione che genera. Rapidamente, con strategie di volta in volta più complesse ma comunque originali, l’intera famiglia di truffatori entrerà nelle grazie della famiglia Park.

Bong Joon-ho – che, oltre alla regia, firma anche soggetto, co-produzione e sceneggiatura, quest’ultima a quattro mani con Han Jin-won – riesce a creare un amalgama di generi sorprendente: Parasite ha il ritmo di un thriller magistrale ed è divertente come una commedia esemplare, pur senza rinunciare a momenti di eccezionale drammaticità. Come se non bastasse, tutto il film è attraversato da un’aspra critica sociale, espressa senza nessuna banalità in un linguaggio contemporaneo, nitido, comprensibile anche a chi conosce il significato della parola Tinder.

Parasite, premiato a Cannes con una meritata Palma d’Oro, conferma l’ottimo stato di salute del K-Cinema contemporaneo e si candida a diventare una delle migliori pellicole del decennio.

Nell’opera del regista coreano, i meccanismi essenziali della narrazione cinematografica trovano una combinazione tanto lucida da apparire disarmante. Nell’arco dei primi dieci minuti, tutti i personaggi sono chiaramente identificati in una personalità compiuta, la trama è coinvolgente e le regole del gioco sono chiare. La cura dei dettagli è maniacale e perfino la colonna sonora riserva sorprese.

Fino all’inaspettato momento di svolta, carico di una suspense che definire angosciante è un eufemismo, lo spettatore sembra essere cosciente dell’intero sviluppo della storia. Se pensiamo solo alla dicotomia tra il seminterrato dei Kim e la villa dei Park, è evidente che la fotografia – inevitabilmente in contrasto con se stessa – delimita uno spettro di colori coerente ed omogeneo.

Nel film non c’è nessun antagonista e nessun eroe. Tutti i personaggi sono pezzi inconsapevoli di una scacchiera di cui non conoscono le regole. In un contesto del genere, chi è l’intruso? Chi è il parassita?

Come si fa ad odiare i coniugi Park, nonostante diano dei nomi ai loro domestici come se fossero animali da compagnia? I loro comportamenti, le loro orrende riflessioni, i loro perversi meccanismi mentali sono frutto di una scelta consapevole? Al contrario, come è possibile non empatizzare con la famiglia Kim, ritratto umano di una società individualista che vive perennemente con un enorme masso sullo stomaco?

E infine: pur senza disprezzare nessuno di loro, è possibile assolverli dalle rispettive colpe?