Sea Watch, il senso della giustizia

Il rilascio della capitana tedesca conferma che il decreto sicurezza bis, su cui il ministro dell’Interno basava la chiusura dei porti nazionali alla Sea Watch 3, non è applicabile alle azioni di salvataggio. Questa è la prima conseguenza di quanto accaduto nei giorni scorsi. Una conclusione scontata per giuristi, associazioni e chiunque si occupi di tematiche dell’immigrazione.

(Certa) politica sta tentando di imporre le proprie ‘narrazioni’ come assunti di verità, tanto da vedere le decisioni della magistratura non allineate come attentati al buon senso (di chi?). I famosi check and balance di universitaria memoria hanno svolto il loro ruolo di garanzia. Al netto delle scomposte dirette social di un ministro, merita ripercorrere qualche passaggio per comprendere.

Esiste in modo consolidato da parecchio tempo, l’obbligo di soccorso in mare – previsto da convenzioni internazionali, di rango superiore rispetto alla legge ordinaria (art. 117 Cost.) – e prevale su qualunque disposizione finalizzata a scopi diversi.

Altro fatto, sempre sancito da norme internazionali: il luogo sicuro, place of safety, non è sempre il porto più vicino. Infatti, le operazioni di salvataggio non si esauriscono con le prime cure mediche o con il soddisfacimento di altri bisogni immediati, un posto sicuro deve garantire la sicurezza effettiva delle persone, in termini di protezione dei loro diritti fondamentali, nel rispetto del principio di non respingimento.

Il diritto, l’amministrazione della giustizia, non può andare bene solo quando ci dà ragione. Altra forzatura è stato il tentativo di espulsione della capitana. Con atteggiamento ritorsivo si è cercato di espellere un cittadino comunitario a cui sono decaduti tutti i reati contestati, e perché avrebbero dovuto? Forse c’è qualcos’altro che sta naufragando: il senso dello Stato.