Primo rimpatrio da Tirana e nuovi trasferimenti forzati: il “Modello Albania” rompe il perimetro del diritto europeo

Il comunicato del TAI - Tavolo Asilo e Immigrazione

Il 9 maggio 2025 l’Italia ha effettuato, al riparo da ogni riflettore, il primo rimpatrio “esternalizzato” della propria storia recente: cinque cittadini egiziani sono stati prelevati dal Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gjadër, accompagnati sulla strada che conduce a Tirana e imbarcati su un charter che, partito da Roma, ha proseguito verso Il Cairo dopo la tappa albanese. Al contrario di quanto dichiarato da fonti del Viminale, cioè che il trasferimento del 9 maggio sarebbe legittimo poiché è avvenuto conformemente alle intese tra Italia e Albania, l’operazione viola apertamente il diritto dell’UE e travalica le disposizioni già illegittime previste dal Protocollo. La distanza fra il recinto del Cpr e l’aeroporto è sufficiente a smascherare la narrazione ufficiale della «piena giurisdizione italiana» su suolo albanese: l’uso della forza coercitiva fuori dal perimetro del centro si svolge inequivocabilmente in territorio albanese ed è privo di qualunque controllo giudiziario italiano.

Peraltro, non è inverosimile che scenari di questa tipologia si riproducano anche nelle prossime settimane. Il centro di Gjader, infatti, continua a essere pieno e operativo. Il 26 giugno un’imbarcazione della guardia costiera italiana, con a bordo 15 migranti trasferiti dall’Italia, è attraccata nel porto di Shëngjin. Il trasferimento è avvenuto nonostante la rilevante pronuncia della Corte di Cassazione, che ha sollevato questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea per valutare la compatibilità del “modello Albania” con il diritto comunitario. La prosecuzione dei trasferimenti, in spregio a questo pronunciamento, denota un livello di ostinazione politica che ignora consapevolmente le evidenze giuridiche: un segnale preoccupante rispetto allo stato di diritto e alla tenuta del principio di legalità nell’azione di governo.

Dal perimetro originario all’espansione illimitata

La vicenda segna un ulteriore balzo in avanti del cosiddetto «modello Albania». Quando, l’11 aprile 2025, le strutture di Gjadër sono state convertite in luogo di trattenimento per persone già destinatarie in Italia delle misure di detenzione amministrativa ed espulsione, governo e maggioranza hanno parlato di mera estensione logistica dei centri italiani. Il rimpatrio diretto, però, sposta l’asse ben oltre l’accordo bilaterale: non solo le persone sono detenute fuori dallo spazio Schengen, ma vengono rimpatriate da un Paese terzo senza passare per alcun territorio soggetto a piena giurisdizione dell’Unione: si consolida un regime di opacità che rende inverificabile il rispetto dei diritti fondamentali.

L’operazione infrange almeno quattro pilastri dell’ordinamento consolidato. In primo luogo, l’articolo 13 della Costituzione italiana e l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo esigono che qualunque privazione della libertà sia soggetta a controllo giurisdizionale: all’aeroporto di Tirana tale controllo semplicemente non esiste. In secondo luogo, la direttiva 2008/115/CE sui rimpatri vieta espulsioni indirette che aggirino le garanzie procedurali; qui il ritorno avviene attraverso un Paese terzo che non applica né la direttiva né il sistema di tutela dell’Unione. In terzo luogo, il principio di non‑refoulement – sancito dalla Convenzione di Ginevra e dall’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali – è gravemente compromesso dal trasferimento verso l’Egitto, Paese in cui torture, detenzioni arbitrarie e persecuzioni politiche sono documentate anno dopo anno. Infine, l’impianto Schengen pretende tracciabilità e uniformità di prassi: prelevare persone da un centro extraterritoriale, caricarle su un furgone e imbarcarle su un volo internazionale equivale a creare una zona grigia inaccessibile a magistrati, garanti e organizzazioni della società civile.

Impatto sui diritti umani e sulla tenuta dello Stato di diritto

L’operazione dialoga apertamente con la logica contenuta nel Regolamento rimpatri in fase di negoziazione a Bruxelles: non replica pedissequamente la proposta dei “return hubs”, ma ne anticipa la direzione strategica: spostare la detenzione, l’esame delle posizioni e il rimpatrio in aree giuridicamente opache, al di fuori della responsabilità diretta degli Stati membri. L’Italia si candida così a laboratorio di un diritto materiale che precede il diritto formale, mettendo alle corde lo stesso metodo legislativo dell’Unione. Se questa prassi dovesse consolidarsi, il Patto europeo su migrazione e asilo – già distorsivo in termini di limitazione delle libertà personali e procedure selettive di frontiera – rischierebbe di trasformarsi in un contenitore svuotato di garanzie minime e con la possibilità di essere radicalmente peggiorato, anche contro le previsioni di diritto positivo, nell’implementazione a cura degli stati membri.

Le modalità operative sottraggono le persone rimpatriate a qualunque forma di tutela. In Egitto, le stesse rischiano persecuzioni e trattamenti inumani ampiamente attestati da numerose organizzazioni internazionali; in Europa, invece, si incrina l’obbligo di prevenire espulsioni collettive e tortura.

Peraltro, la Cassazione, nella recente ordinanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea, tra gli altri profili aveva già messo in dubbio la qualificazione dei Cpr albanesi come “giurisdizione  italiana”. Il trasporto delle cinque persone egiziane rafforza la tesi dell’incompatibilità e apre un conflitto istituzionale che chiama in causa la Commissione, la Corte di giustizia e, per riflesso, l’intero spazio giuridico europeo.

Linee di contrasto e responsabilità collettive

Difendere l’effettività del diritto europeo richiede un ventaglio di iniziative che spaziano dal livello parlamentare a quello giudiziario, fino alla mobilitazione civile. Per quanto riguarda il parlamento italiano, è indispensabile pretendere trasparenza sulle catene di comando e sulla base giuridica dei rimpatri via Tirana e portare, in quella sede, il dibattito politico e giuridico.

La rivelazione del primo rimpatrio diretto da Tirana è nata sul campo, durante la missione congiunta di monitoraggio del 17-18 giugno al Cpr di Gjadër condotta dal Tavolo Asilo e Immigrazione insieme alle deputate e ai deputati di opposizione, ed è stata oggetto di un’accurata inchiesta di Altreaeconomia. Il caso mostra quanto sia indispensabile mantenere una sorveglianza continuativa: la presenza e l’attivazione di osservatori indipendenti può smontare, almeno in parte, l’opacità strutturale del «modello Albania».

Il rimpatrio del 9 maggio 2025, avvenuto lungo la strada che collega Gjadër a Tirana, mette in scena l’efficacia performativa del «modello Albania»: non è un punto a favore dell’operato dell’attuale governo italiano, bensì rivela la fragilità dello Stato di diritto quando si subordina la legalità alle contingenze politiche. Se non si riuscirà a interrompere tempestivamente questa prassi, l’Unione Europea rischierà di trovarsi un sistema di eccezione permanente ormai normalizzato. La posta in gioco trascende la politica migratoria: riguarda la possibilità stessa di continuare a invocare un diritto comune fondato su garanzie effettive, non negoziabili e sottratte alla disponibilità di chi governa. Per questo la vicenda albanese deve allarmare non solo chi lavora sul tema delle migrazioni, ma chiunque abbia a cuore la tenuta democratica del progetto europeo.

Tavolo asilo e immigrazione

27 giugno 2025