Perché l’autonomia differenziata fa male all’ambiente?

Poco più di un anno fa, dopo due deliberazioni sullo stesso testo sia al Senato che alla Camera, come richiesto per le leggi che modificano la nostra Carta fondamentale, è stata approvata in via definitiva la riforma che introduce tra i principi fondamentali della nostra Costituzione la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli animali. Con un nuovo comma all’articolo 9 venne, infatti, sancito che la Repubblica italiana ‘tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni’ e che ‘La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali’. Una innovazione davvero epocale, compiuta anche a tutela dei giovani di oggi e di domani, di quella Next Generation che l’Europa ha messo al centro del suo più ambizioso e generoso piano di rilancio. E grazie all’ampia maggioranza con cui il testo è stato approvato in entrambi i rami del Parlamento non è stato necessario il referendum confermativo. Inoltre con due piccole aggiunte all’articolo 41 si stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto alla salute e all’ambiente, premettendo questi due limiti a quelli già vigenti, ovvero la sicurezza, la libertà e la dignità umana, e si riserva alla legge la possibilità di indirizzare e coordinare l’attività economica a fini non solo sociali, ma anche ambientali. Un modo per indicare la direzione dello sviluppo sostenibile e riaffermare che mai più nessuno deve permettersi di chiedere agli italiani di scegliere tra lavoro da una parte e salute e ambiente dall’altra. E per ribadire che ecologia ed economia possono camminare insieme. Ma come si intreccia questa importantissima riforma costituzionale con il tema dell’autonomia differenziata?

Esistono, a mio parere, almeno 3 piani di analisi con cui un’ecologista può rispondere a questo quesito: quello che è successo, le sfide che ci attendono ed una premessa costituzionale. 

Partiamo da quello che è successo: abbiamo alle spalle 40 anni di esperienza nel trasferimento di poteri alle Regioni, sia nelle Regioni a statuto speciale sia nelle Regioni a statuto ordinario, ma nel dibattito politico sulla proposta di autonomia differenziata Calderoli-Meloni manca totalmente un’analisi dei risultati del trasferimento di poteri alle regioni già avvenuto su materie ambientali di grande importanza quali il trasporto pubblico, le infrastrutture, la diffusione delle energie rinnovabili.  

Facciamo alcuni esempi che riguardano l’aria, il suolo, l’energia. La pessima qualità dell’aria (su cui da diversi anni siamo in infrazione secondo l’Unione Europea e continuiamo a pagare milioni di euro di multe) fa dell’Italia il primo paese in Europa per morti attribuibili all’inquinamento atmosferico con circa 80mila decessi prematuri all’anno (analisi della Società Italiana di Medicina Ambientale) e con le prime 25 città più inquinate appartenenti al cosiddetto triangolo padano stretto tra Alpi ed Appennini. Nella stessa Pianura Padana, che non sembri una coincidenza, si registrano numeri record sul consumo di suolo fatto soprattutto di nuove costruzioni ma anche di infrastrutture stradali. Praticamente tutte le regioni italiane hanno disinvestito negli ultimi anni sul trasporto ferroviario regionale ed hanno puntato, investito e rivendicato risorse per costruire nuove strade ed autostrade.  Con buona pace dei pendolari e della salute dei cittadini e delle cittadine. Basti ricordare l’incredibile vicenda della BreBeMi – l’autostrada A35 che collega Brescia, Bergamo e Milano inaugurata nel 2014 – opera fortemente voluta dalla destra come dalla sinistra e che nella narrazione avrebbe dovuto essere finanziata interamente dai privati. Ci sono voluti milioni di soldi pubblici anche della Regione Lombardia per salvarla dal fallimento. Quella stessa regione che continua a non investire sulle linee ferroviarie che più hanno necessità di ammodernamento, drenando invece molte risorse per opere poco incisive sugli spostamenti dei pendolari lombardi, a partire dal completamento dell’Alta Velocità Brescia-Verona-Vicenza-Padova, che difficilmente migliorerà le prestazioni del trasporto pubblico locale lungo la direttrice storica su cui viaggiano i treni regionali. 

Ancora: Lombardia e Veneto avrebbero dovuto approvare il piano di tutela paesaggistica dal lontano 1985 e sono le regioni a massimo consumo di suolo: meno regole e pianificazione vogliono dire più cemento ed impermeabilizzazione del suolo e in epoca di mutamenti climatici stiamo drammaticamente imparando che dopo la speculazione si contano vittime e danni. D’altro canto dal 1998 le regioni hanno poteri diretti sull’edilizia residenziale pubblica che invece rimane ferma al palo. Una volta passato alle regioni il tema è sparito dall’agenda politica e mentre si sono costruite seconde e terze case in barba alla sicurezza e ai criteri ambientali, quelle che davvero servirebbero non si costruiscono più ed è sempre più difficile potersi permettere la vita in città con affitti altissimi e migliaia di case vuote. Proprio dall’edilizia residenziale pubblica avrebbe dovuto partire una seria politica di efficientamento energetico delle abitazioni per ridurre i costi in bolletta e procedere sulla strada della decarbonizzazione del Paese: anche su questo fronte, regioni non pervenute!

Sia chiaro, non è detto che con un assetto diverso le cose sarebbero andate meglio perché quando si parla di politiche ambientali le responsabilità per aver bloccato il Paese è politicamente ed istituzionalmente trasversale, purtroppo! 

Quello che è certo però – e ci spostiamo sul piano delle sfide che ci attendono – è che oggi sono proprio le regioni e i loro ingarbugliati iter autorizzativi a rappresentare il collo di bottiglia che impedisce al nostro paese di sviluppare la produzione energetica da fonti rinnovabili e quindi raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione sottoscritti a livello europeo. Secondo i dati Legambiente al marzo 2023 sono 1364 gli impianti in lista d’attesa, ossia in fase di VIA, di verifica di Assoggettabilità, di valutazione preliminare e di Provvedimento Unico in Materia Ambientale a livello statale. Il 76% distribuito tra Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. A fronte di questo elevato numero di progetti in valutazione – e nonostante le semplificazioni avviate dall’ex Governo Draghi e l’istituzione e il potenziamento appena stabilito delle due Commissioni VIA-VAS che hanno il compito di rilasciare un parere sui grandi impianti strategici per il futuro energetico del Paese – sono pochissime le autorizzazioni rilasciate dalle Regioni negli ultimi 4 anni. Nel 2022 solo l’1% dei progetti di impianti fotovoltaici ha ricevuto, infatti, l’autorizzazione. Si tratta del dato più basso degli ultimi 4 anni – spiega Legambiente – se si pensa che nel 2019 a ricevere l’autorizzazione sono state il 41% delle istanze, per poi scendere progressivamente al 19% nel 2020, al 9% nel 2021. Ancor peggio i dati dell’eolico on-shore con una percentuale di autorizzazioni rilasciate nel 2019 del 6%, del 4% nel 2020, del 1% nel 2021 per arrivare allo 0% nel 2022. Le fonti rinnovabili, fotovoltaico a parte, nel 2022 hanno fatto registrare, tutte, segno negativo. L’idroelettrico, complice l’emergenza siccità, registra un meno 37,7% a cui si aggiunge il calo del 13,1% in tema di produzione da pompaggi che portano il contributo delle rinnovabili, rispetto ai consumi complessivi, al 32%. Ovvero ai livelli del 2012. A pesare sono appunto norme obsolete e frammentate, la lentezza degli iter autorizzativi, gli ostacoli e le lungaggini burocratiche di Regioni e Soprintendenze ai beni culturali. Il risultato finale è che nella nostra Penisola l’effettiva realizzazione di nuovi impianti da fonti pulite resta sostanzialmente una chimera con le regioni che urlano all’indipendenza energetica regionale impedendo di fatto al paese di raggiungere quella nazionale dal gas straniero (quello russo in primis!).

Inquinamento atmosferico, lotta al dissesto idrogeologico, contrasto dei mutamenti climatici, politiche di adattamento agli eventi metereologici estremi: sono tutti problemi che richiederebbero una visione complessiva, un approccio alla complessità, una programmazione nazionale, politiche fiscali e programmazione economica pluriennale. Insomma uno Stato coeso e forte che sappia assicurare un piano industriale e di sviluppo economico che tenga insieme la lotta ai mutamenti climatici e la lotta alle diseguaglianze sociali. Abbiamo bisogno insomma di politiche sistemiche e di road map chiare che consentano alle nostre imprese di investire e programmare in serenità e sicurezza.  

Anche in campo ambientale le politiche pubbliche debbono essere coerenti per evitare che le diseguaglianze regionali si aggravino. Come ha sottolineato il professor Gaetano Azzariti, costituzionalista “Al fondo è il disegno complessivo definito in Costituzione che viene stravolto. Si vuole passare da un regionalismo solidale a uno competitivo che l’Italia, con i suoi squilibri economici e territoriali, non potrebbe reggere”.

Ancora in campo ambientale dobbiamo sottolineare – usando uno degli argomenti in realtà brandito dai difensori dell’autonomia differenziata –  come sia necessario avvicinare il potere decisionale ai cittadini, ma l’autonomia non va in questa direzione perché nulla dice su due condizioni che renderebbero quell’avvicinamento reale e non retorico ovvero rilanciare la collaborazione orizzontale tra enti locali che governano territori limitrofi e secondariamente definire obiettivi da parte dello Stato, e soprattutto rendere obbligatori la valutazione dei processi partecipativi e dei risultati. In questo senso il nuovo codice appalti e la marginalizzazione dello strumento del dibattito pubblico sono segnali gravemente contraddittori e significativi con l’intento dichiarato dalla riforma Calderoli di avvicinarsi ai cittadini.

Infine la premessa costituzionale accennata all’apertura di questa riflessione: oggi abbiamo la possibilità di poter ragionare sulla proposta Calderoli senza ideologismi ma partendo dalla riprova di quello che abbiamo visto in questi ultimi drammatici anni. La pandemia e le condizioni del sistema sanitario nazionale sono oggi la migliore riprova di cosa può significare l’autonomia regionale. Fallimento dei sistemi regionali, subentro in corsa dello Stato, anche nelle regioni più ricche, irrilevanza dei LEA – Livelli essenziali di assistenza, che non sono stati in grado di contrastare la differenziazione nella qualità delle prestazioni sanitarie. Oltre all’impossibilità per lo Stato, negli anni precedenti la pandemia, di avere una politica di prevenzione. L’impossibilità di poter svolgere la prevenzione a livello nazionale in campo sanitario è un grande problema anche per l’ambiente che con le sue problematiche ed emergenze non conosce i confini amministrativi. La Costituzione garantisce a tutti i diritti inviolabili su tutto il territorio nazionale. E oggi come già detto, accanto alla salute, è in Costituzione – nei principi fondamentali – anche l’ambiente. L’esperienza dimostra che, nonostante quanto dice l’articolo 117 che prevede che sia lo Stato a determinare i LEP in materia di diritti civili e sociali (e oggi anche ambientali), questi LEP non sono in grado di ridurre le disuguaglianze e la distanza tra le regioni. Ce lo dice, come accennato sopra, l’irrilevanza dei LEA sanitari già operativi. Ad oggi non funziona il fondo perequativo, previsto in Costituzione, né i poteri sostitutivi e il controllo del centro, e salta la possibilità di avere politiche pubbliche omogenee, tanto più che la proposta Calderoli prevede che i LEP siano definiti in sede tecnica, senza interlocuzione con la politica (e quindi con la possibilità di disegnare un’idea di Paese e la sua evoluzione). È chiarissimo a tal proposito il monito dell’economista professor Gianfranco Viesti “Se volessimo finalmente dare attuazione al regionalismo in Italia, per come previsto in Costituzione, dovremmo iniziare a costruire dalle fondamenta e non dal tetto. E queste sono iscritte non nell’articolo 116, comma 3, ma nel successivo articolo 119, che prevede di istituire un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, nonché risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale. Una volta ristabilita l’eguaglianza sostanziale ed avvicinate le condizioni di fatto tra i cittadini (come pretende il “principio fondamentale” e non derogabile di cui all’articolo 3), si potrà allora pensare a come devolvere funzioni al fine di assicurare il rispetto dei principi di decentramento amministrativo e le esigenze dell’autonomia in armonia con i principi fondamentali degli articoli 2, 3 e 5”. Una volta fissato come il Paese, in coerenza ed armonia con gli indirizzi europei, debba traguardare gli obiettivi della decarbonizzazione, del rispetto dell’ecosistema e della biodiversità, dell’indipendenza energetica, della tutela ambientale dovremmo necessariamente prevedere un protagonismo territoriale e una partecipazione rafforzata che non possono però diventare frammentazione e schizofrenia istituzionale. Come sempre, basterebbe seguire davvero lo spirito della Carta Costituzionale.