Caos armato in Libia

Una guerra la si può pure vincere. Un dittatore lo si può anche abbattere e poi eliminare fisicamente perché testimone scomodo, ma se non hai uno straccio di strategia politica, quelle vittorie militari finiscono per trasformarsi in tragedie immani, che fanno di popoli moltitudini di profughi, disseminando il Grande Medio Oriente di Stati falliti, di Paesi in macerie, di ‘terre di nessuno’ dove a dettar legge sono milizie, tribù, organizzazioni criminali. È successo con la guerra in Iraq, con la Siria, e venendo ai confini del Belpaese, con la Libia. Sono passati sette anni dalla eliminazione di Muammar Gheddafi e del suo regime. Che quella del 2011 tutto fosse meno che una ‘guerra umanitaria’ era già chiaro allora, nonostante una narrazione ipocrita quanto criminale, che raccontava di (inesistenti) fosse comuni e di una rivolta libica entrata nel novero delle ‘Primavere arabe’. Una narrazione falsa, come falsa era la ‘pistola fumante’ che aveva legittimato in quel porto delle nebbie chiamato Onu, l’invasione dell’Iraq.

Democrazia, stabilità, elezioni: in qualunque lingua declinate – italiano, francese, egiziano, russo, arabo … – sono comunque parole prive di valore reale in una Libia dove a dominare è il caos. Un caos armato. Perché, sette anni dopo, la caduta del Colonnello – divenuto scomodo per i Sarkozy di turno, e per quanti in Italia avevano fatto la fila per accreditarsi e fare affari con il rais libico – la Libia è questo: due ‘governi’, due ‘parlamenti’ in guerra tra loro, oltre 250 tra milizie e tribù in armi, un ‘signor nessuno’ – Fayez al-Sarraj – messo alla guida, proprio perché tale, di un Governo riconosciuto internazionalmente ma incapace di controllare neanche i quartieri di Tripoli dove è insediato, che per non essere asfaltato deve chiedere aiuto a milizie – quella di Misurata – e signori della guerra spacciati da statisti, che si alleano e poi si sparano per un solo, vero, obiettivo: spartirsi la ‘torta petrolifera’. Una torta miliardaria. La stessa per la quale, sette anni fa, la Francia, leggi Total, impose la guerra, alla quale l’Italia – leggi Eni – sentì di non poter sottrarsi se non volevamo restare fuori dal tavolo dei ‘vincitori’. E per non essere tagliati fuori dalla ‘grande spartizione’ (un giro d’affari complessivo, calcolato in oltre 130 miliardi di euro), l’Italia ha fatto e sta facendo di tutto. E di peggio. In nome di una ‘invasione’ che non c’è, ma che nell’epoca della post verità, dove la realtà è la percezione, fa prendere voti, abbiamo dichiarato guerra alle Ong, introducendo di fatto il reato di solidarietà. Abbiamo addestrato e rafforzato la Guardia costiera libica, incuranti dei rapporti, delle drammatiche testimonianze, dei video angoscianti, che raccontano di una organizzazione criminale in divisa, legalizzata. Salvini è il peggio, ma a pagare milizie e tribù perché si trasformassero in carcerieri dei lager libici, dove venivano e vengono abusati, torturati, venduti come schiavi centinaia di migliaia di esseri umani, aveva iniziato il governo precedente, e un ministro che si faceva vanto della diminuzione degli sbarchi, ma metteva tra parentesi, come un danno collaterale, l’inferno nel quale chi non sbarcava veniva ricacciato. La Libia è la vergogna nazionale. Terra in cui si sperimenta un neocolonialismo straccione, un mix di velleitarismo diplomatico (la cabina di regia italiana, avallata a chiacchiere da Donald Trump) e di bombardamento mediatico ad uso interno. Hanno puntato sul ‘cavallo’ perdente (Fayez al-Sarraj), e per tornare in corsa, ministri dell’attuale governo, hanno fatto la corte al presidente-generale egiziano, Abdel Fattah al Sisi, uno degli sponsor, assieme a Macron, oltre che alla Russia e agli Emirati Arabi Uniti, dell’uomo forte della Cirenaica: il generale Khalifa Haftar. E per accreditarsi agli occhi del ‘faraone’, prima il titolare della Farnesina, Enzo Moavero Milanesi, e ancor più di lui, i due vice premier che contano, Salvini e Di Maio, hanno gettato nella spazzatura le richieste di verità e giustizia per Giulio Regeni. Nell’incontrare la stampa dopo il suo colloquio al Cairo con il despota egiziano, ai giornalisti il vicepremier pentastellato ha riferito la frase di al-Sisi: «Regeni è uno di noi». Una vergogna, un insulto, anzitutto per la famiglia di Giulio. Ma si è accettato anche questo, in nome degli interessi petroliferi, e non solo, che le aziende italiane hanno in Egitto e con l’Egitto. Gli affari uccidono i diritti umani, cancellano l’umanità. La Libia è anche questo.