L’accordo Ilva lascia aperte delle questioni sociali e politiche

Lo scorso 6 settembre al MISE si è giunti alla firma dell’accordo tra Arcelor Mittal e Sindacati che ha di fatto chiuso una delle più lunghe vertenze industriali della storia del Paese. Dal luglio del 2012, con il sequestro senza facoltà d’uso degli impianti ai Riva da parte della magistratura, è iniziata una stagione di tensioni sociali, politiche e tra poteri dello Stato.

L’affare Ilva è risultato, anche nel dibattito politico e sociale, una fonte inquinante. Si pensi agli interventi legislativi di questi anni, senza precedenti, che hanno portato ad aspri conflitti tra governo e magistrati; o, ancora, alla frattura tra i movimenti cittadini a favore della chiusura degli impianti e il mondo della rappresentanza sindacale, che ha toccato punte di tensione preoccupanti fino a dare l’impressione che la faglia aperta contrapponesse gli interessi degli operai a quelli dei cittadini residenti.

In questo clima di contrapposizioni e contraddizioni così difficili da risolvere c’è chi ha avuto molte difficoltà a far comprendere le proprie posizioni (è successo ai sindacati locali e al mondo dell’ambientalismo più strutturato, con Legambiente e Arci in testa) o le proprie disposizioni (basti pensare allo scarso appeal che gli interventi dei governi targati Vendola hanno saputo generare in Città). C’è invece chi ha saputo interpretare con maggiore popolarità la fase di disillusione di un’intera comunità che, sotto lo schiaffo dei dati del disastro ambientale e dinanzi ai numeri del dramma sanitario, ha cominciato dopo decenni a risvegliarsi dal sogno del miracolo industriale. Così è stato per i movimenti cittadini che hanno saputo tradurre la vertenza in proposta culturale dando vita ad uno degli appuntamenti di punta del panorama nazionale degli eventi, come il Primo Maggio tarantino e così è stato per parte del mondo della rappresentanza politica che, specie alle ultime consultazioni, ha cavalcato con risultati più che lusinghieri il drago della chiusura dell’Ilva e della riconversione.

Le firme del 6 settembre al MISE, se da un lato risolvono importanti questioni da un punto di vista occupazionale e danno delle (a dire il vero timidissime) risposte riguardo alle questioni ambientali, dall’altro lasciano aperto il campo delle contraddizioni e, anzi, rischiano di favorire le tensioni.

L’accordo è stato approvato dai lavoratori, consultati attraverso un referendum: a dire di sì sono stati quasi il 60% di loro (il 94% tra coloro che hanno partecipato al voto). Percentuali alte, di cui sicuramente tutti gli attori possono essere contenti, ma che lasciano trasparire un dubbio: i 10.700 assunti subito, l’articolo 18 confermato, il bonus per l’esodo volontario anticipato, la riduzione dei tempi di adeguamento degli impianti per ridurre le emissioni ci consegnano il quadro di un accordo positivo (stando alla grammatica delle contrattazioni) ma che lascia aperte alcune questioni. La prima, di carattere squisitamente politico, porta a chiederci chi raccoglierà la delusione degli elettori che avevano sostenuto la principale forza di maggioranza passata dalla proposta di chiusura dell’Ilva in campagna elettorale ad un accordo con Arcelor Mittal dissimile poco dal piano Calenda; la seconda, di carattere sociale, deve farci interrogare su chi avrà la capacità di tessere la ricucitura tra le anime del territorio e di proporre una visione a coloro che continuano a vedere in Ilva un pericolo per la salute pubblica e per l’incolumità degli stessi lavoratori.