Tra fakenews e minacce, la libera informazione è sotto attacco

Per il Centro di Coordinamento delle attività di monitoraggio sugli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, nel 2017 sono stati 126 gli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti

È un periodo oscuro quello che stiamo attraversando, e non solo in Italia. Oscuro perché viviamo un clima di odio diffuso che alimenta nuovi razzismi e fascismi pericolosi, oltreché sottostimati nelle loro potenzialità. Fascismi che vestono i panni della democrazia formale, razzismi che soffiano su paure, povertà e crisi economica, sociale, culturale, sventolando  lo spauracchio degli stranieri rappresentati attraverso false notizie create ad arte.

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Questo clima diffuso ha pesanti ricadute su libertà di stampa e diritto dei cittadini ad essere informati: da molto tempo denunciamo le minacce e gli attacchi fisici e verbali contro i cronisti che fanno il loro lavoro seriamente. Secondo il Centro di Coordinamento delle attività di monitoraggio sugli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, costituito poche settimane fa presso il ministero dell’Interno su proposta della Fnsi e Ordine dei Giornalisti, nel 2017 sono 126 gli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, dall’inizio del 2018 sono stati monitorati già 18 episodi. E tuttora si contano 19 giornalisti e giornaliste sotto scorta.

Il centro è nato con l’obiettivo di uno scambio di informazioni sui cronisti minacciati, i noti e soprattutto i tanti lontano dai riflettori, e dei nuovi attacchi che non vengono più solo da mafie, criminalità e corruzione, ma anche da organizzazioni neonaziste e neofasciste. Minacce, insulti, spintoni, schiaffi e pugni, testate sul naso ai danni di croniste e cronisti, intimidazioni sotto la sede di giornali per impedire che venga raccontato cosa c’è dietro i gruppi di estrema destra che stanno crescendo in tutta Europa e in particolare in Italia: non possiamo parlare di emergenza, è un altro pezzo della deriva autoritaria del sentire comune.

E in campagna elettorale non si attenua: il cronista e la testata che fanno inchiesta si apprezzano quando svelano le magagne dell’avversario, sono ignobili quando raccontano le proprie. Pochi si sottraggono a questa equazione.

Ancora una volta, guardare a cosa accade fuori dai confini aiuta a capire i pericoli per la nostra democrazia: la Turchia è oggi il più grande carcere a cielo aperto per tutte le forme di dissenso dal potere in carica. Un carcere a cielo aperto dove ogni singola parola di critica al presidente Erdogan è a rischio censura e persecuzione giudiziaria.

È imprecisato il numero di giornalisti in prigione, e nei giorni scorsi sei di loro sono stati condannati all’ergastolo, e solo per i loro scritti e le loro idee. Ma Erdogan è stato eletto ‘democraticamente’, sia pure con i media sotto assedio. E dietro a questo equivoco si schermano governo e istituzioni europee che continuano a stringergli la mano e fanno finta di non vedere come è morto lo stato di diritto in quel Paese.

L’Italia è ai piani bassi delle classifiche sulla libertà d’informazione per due questioni (sorvolando sulla riforma della Rai che ha posto il servizio pubblico, e quindi la sua informazione, sotto il diretto controllo del governo): il numero dei giornalisti sotto scorta e le querele temerarie, altro capitolo che il parlamento in uscita non ha trovato il tempo di affrontare.

Ci piacerebbe che la difesa dell’articolo 21 della Costituzione finalmente facesse la sua comparsa nel dibattito politico, ad esempio, con impegni chiari da parte dei futuri parlamentari, di fronte agli elettori (gli unici ‘azionisti di riferimento’ per qualsiasi giornalista) di porre fine a questa deriva e ristabilire la piena democrazia.