Venezia 75, nove minuti di applausi per ‘Un giorno all’improvviso’

L’esordio di Ciro D’Emilio, consigliere nazionale UCCA, conquista il Lido

Si è chiusa una 75^ Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia senza precedenti: un’edizione che ha saputo ben amalgamare autorialità conclamate con nuove istanze della nostra industria creativa, integrando il tutto con premiere di spessore ed eventi speciali. Non più una semplice vetrina, ma un palcoscenico a tutto tondo che ha visto protagonisti non pochi cineasti emergenti e, soprattutto, non poche novità sul piano espressivo: novità sul modo di far cinema e, tanto più, di vivere il cinema.

Uno dei casi più eclatanti è stato l’ottima accoglienza riservata a Un giorno all’improvviso, opera prima del giovane 31enne regista campano Ciro D’Emilio, apprezzato autore di corti e agitatore culturale di Ucca, con una miriade di iniziative tra cui l’attività formativa di Road to Pictures, il magazine Opereprime.org e Pitch in the Day, il più importante speed date tra autori esordienti e i principali produttori cinematografici italiani. Il film, un progetto nato sulla scia di una storia intensa, viva e sincera, con alle spalle una lavorazione altresì profonda, vorticosa e sentita, è stato accolto con nove minuti di applausi, encomi da critica e pubblico e due premi collaterali (il Premio Sorriso Diverso Tulipani di Seta Nera, per la critica sociale, e il Nuovo Imaie assegnato al talentuoso Giampiero De Concilio come miglior interprete esordiente, un riconoscimento che in passato ha visto insigniti, tra gli altri, attori del calibro di Federica Rosellini e Alessandro Borghi). Un esito che rende piena giustizia a un lavoro durato ben cinque anni, dall’ideazione del soggetto alla ricerca delle risorse, passando per la menzione al Premio Solinas.

Per quanto possa sembrare oggi quanto mai anacronistico continuare a parafrasare la lezione di André Bazin sul Realismo, non c’è niente di più sorprendente nel doverlo attualizzare, se non ridiscutere, in questo piccolo grande lungometraggio, oltre che in altri esordi nostrani che hanno costellato la line-up del concorso. Un tempo si parlava di Realismo, rapportato al cinema, quando si cercava di sviscerare i rapporti umani nella loro essenza. Il tutto sullo sfondo di scenari e città da ricostruire. Luoghi che sembravano aver perso la loro identità (Germania Anno Zero – 1948): persone, volti, famiglie, padri, madri, figli e figlie senza più un’appartenenza. Tempi in cui sembrava non esservi niente di più autentico e, per l’appunto, reale all’infuori delle relazioni. Le stesse relazioni che, oggi, al contrario, diventano sempre più difficili da preservare, custodire e mantenere: la camera annaspa, si fa ora più stretta, attanaglia come mai nuovi volti, nuove storie, le (in)segue e tenta disperatamente di trarne una nuova umanità.

Tutto ciò permea Un giorno all’improvviso, in cui è l’imprevisto ad orchestrare ogni legame. Il racconto è quello del rapporto tra una madre ‘problematica’ e un figlio, un binomio curiosamente presente anche in un’altra importante rivelazione della kermesse del Lido, l’opera prima di Letizia Lamartire, Saremo giovani e bellissimi, che vede ancora al centro uno scontro generazionale incosciente e ambiguo. Nessun personaggio conosce ancora il proprio ruolo. Ma, nella pellicola di D’Emilio, Antonio (De Concilio), il protagonista, fa la differenza (almeno per quello che dimostra sul campo da calcio): il suo ruolo è centrale di difesa, ha diciassette anni, è una promessa del calcio a tutti gli effetti, a un passo dalla grande prova. Quando gioca, si vota totalmente alla squadra, pressa l’uomo, recupera palloni e rimette tutti e tutto in gioco. Ma, finita la partita, al triplice fischio, quel suo stesso ruolo sembra non interrompersi. Ad aspettarlo a casa c’è Miriam (un’Anna Foglietta eccelsa, irriconoscibile, forse nel suo ruolo più impegnato), una madre dolcemente contraddittoria. Miriam è però anzitutto una donna, la cui patologia, destinata ad aggravarsi di giorno in giorno, le impedisce di concedersi appieno alla vita e a un contatto stabile coi propri cari. Niente che comunque possa impedirle di farle provare e donare amore. Un amore folle, discontinuo, sfuggevole, tormentato, cadenzato in pochi singoli istanti ma meravigliosamente puro. Di quegli amori che «farebbero rimaner ferme le montagne» (come lei stessa suggerirebbe).

Antonio lo sente, crede in quell’amore e lo accoglie dentro di sé. Al campo di calcio alterna quello di limoni dove, sotto i timidi raggi di una primavera ancora alle porte, aiuta Miriam in una raccolta gravosa e accurata. Un lavoro che fu del nonno e che lo ricongiunge alle sue radici. È buffo ma è proprio lì, tra il terriccio, le piante e gli arnesi, che sembra palesarsi agli occhi del ragazzo una famiglia, una madre pazza, amorevole, pronta a rubargli abbracci inaspettati.

When life gives you lemons, make lemonade recita l’esergo scelto come titolo del film nella sua versione inglese: a dispetto delle avversità che puoi incontrare nella vita, fai sempre del tuo meglio per convertire ogni problema in un nuovo punto di partenza. Fa’ sì che nei giorni che seguono tu possa rendere utile tutto questo dolore, specie quando sono i legami gli unici appigli in grado di darti forza e speranza. E sebbene siano proprio questi i primi a soccombere e a rendere sempre più opaco il domani. Un giorno all’improvviso traccia però legami senza tempo e spazio, relegandosi elusivamente a chi li vive e li soffre.

D’altronde, sempre se la lezione di Bazin può ancora tornarci utile, si è ‘realisti’ nella misura in cui si è in grado di infrangere la mera barriera del ‘reale’, arrivando così a più realtà e a più scenari.

«Abbiamo fatto in modo di offrire più spazio ai personaggi» ha dichiarato lo stesso regista a fine anteprima: «Ci siamo soffermati su di loro in modo tale che questa vicenda potesse toccare anche chi era più lontano da quei luoghi». Sono Antonio e Miriam ad occupare un loro posto nel mondo. Sono loro il loro spazio. Ciò che li attornia fa volume, è impercettibile, precario e sembra star stretto alle loro storie. Anzi, spesso arriva anche a perderle. I volti si fanno incerti, sfocati e ovattati, andando a smarrirsi verso nuovi inizi…

Racconta Anna Foglietta di sé e di Miriam a Il Messaggero: «La mia è una donna normale che, a causa della malattia, nel momento in cui le viene negata la supremazia, che pensa le sia dovuta, diventa collerica e violenta verso se stessa e gli altri. Questo la porta a non empatizzare con nessuno, fagocitando tutto ciò che le è intorno. Ruba la scena ad un figlio apprensivo, paterno. Un ruolo simile richiedeva anzitutto una consulenza psicologica da parte di un’esperta. L’obiettivo era eliminare il giudizio nei riguardi di una persona che palesasse quel genere di disagio. Una patologia rimane pur sempre una patologia. Dovevo assolutamente riportare in scena una maternità che fosse diversa da quella tradizionale. Viviamo in un paese in cui ci hanno abituato ad una certa iconografia della maternità, spesso monocorde. La verità è che essere madre porta a metterti in discussione e, nella peggiore delle ipotesi, ad essere giudicante verso quelle donne che vivono una maternità differente dalla tua. Dovremmo invece essere tutte quante più accoglienti e ricettive. Un aspetto che senza dubbio ha agevolato la spontaneità del mio lavoro è stato il dialetto. Il napoletano in particolare accresce la potenza espressiva di un personaggio come il mio. Parlando più del film, ciò che più di ogni altra cosa mi ha convinto ad aderirvi è stato il senso di riscatto sociale che avvolge il protagonista: è il nucleo principale e forse il più positivo della vicenda raccontata, l’aspetto che mi ha più emozionato. Si racconta una Campania inedita, nuova. Se nell’immaginario comune si è ormai protesi a trattare il malaffare e i giovani attratti dalle lusinghe della camorra, questa pellicola sdogana ogni dogma con un protagonista, Antonio, interpretato per altro magistralmente da Gianpiero De Concilio, fuori da ogni schema».

«È un film nato nel 2013» esordisce Ciro D’Emilio ai microfoni di Rai Movie: «cinque anni fa abbiamo partorito un primo script con Cosimo Calamini, co-sceneggiatore del film, con cui nel tempo ho cominciato a conoscere i produttori della Lugta Film, Maurizio Piazza e Andrea Calbucci, dando così inizio ad un lungo percorso. La produzione vera e propria è partita a gennaio di quest’anno. Con Anna ci eravamo sentiti già prima, dal momento che ero convinto fin da subito che solo lei avrebbe potuto impersonare al meglio Miriam. Da gennaio in poi si è susseguito invece un unico filo conduttore che, francamente, devo ancora elaborare. Per ciò che riguarda la storia, la nostra propensione era raccontare qualcosa di netto, spietato, al di là del bene e del male. Il tutto partendo da un rapporto intimo ed esclusivo, come solo quello madre-figlio sa essere. C’era il calcio e alle sue spalle una provincia, un luogo che abbiamo cercato in tutti i modi di rendere universale, collocabile in qualsiasi altra parte del territorio italiano. Non volevamo ghettizzare gli ambienti ma raccontare semplicemente una storia e le problematiche annesse a un rapporto».

Gli fa eco nuovamente Anna: «L’aggettivo ‘estremo’ è calzante in tutti i sensi. La mia stessa Miriam come personaggio lo è. Non volevo scadere nel semplicismo poco dignitoso di un’idea di follia troppo caratterizzante». «Non è solo il mio primo ruolo importante,  ma è addirittura il mio primo ruolo nel cinema» commenta sul finire la rivelazione Giampiero De Concilio: «è stata una sfida paradossale. Antonio non poteva comportarsi come un bambino, anche se in fin dei conti lo rimaneva. Nel quotidiano doveva badare alla madre e al contempo rimanere adolescente. Un ragazzino che gioca a calcio, si innamora e che cogli amici è spensierato. Il mio obiettivo è stato quello di ridurre e sintetizzare nel modo più pulito possibile il personaggio. Fortunatamente tra il nostro acting coach, Andrea Calbucci, Anna e Ciro mi sono trovato nel bel mezzo di un processo naturale, che mi ha coinvolto in tutto e per tutto».