Reato di solidarietà, l’odissea della Open Arms

Proactiva Open Arms nasce nel 2016 per uno strano caso del destino. Oscar Camps è un imprenditore di 53 anni. Dirige una florida società di salvamento che ha in gestione molte delle spiagge spagnole. È un uomo realizzato e benestante, ha cinque figli e una vita normale. Poi accade qualcosa.

Oscar è seduto sul divano della sua bella casa, è con sua figlia, e alla tv appare l’immagine di Aylan Kurdi, un bimbo deceduto durante una traversata, che giace disteso sulla spiaggia. È una foto che fa il giro del mondo e che sconvolge la coscienza dell’opinione pubblica europea. È in quel momento che la figlia di Oscar gli fa una domanda semplice, diretta: «Papà, tu fai il bagnino. Perché non l’hai salvato?»

La vita di Oscar cambia per sempre. Parte per Lesbos e fonda la ONG Proactiva Open Arms.

Da quel lontano giorno del 2016, l’organizzazione non governativa salva all’incirca 60mila persone tra l’Egeo e il Mediterraneo Centrale durante le sue 43 missioni, grazie all’aiuto di tante persone che la sostengono economicamente o che offrono la loro professionalità a bordo a titolo volontario. Medici, infermieri, operatori di primo soccorso, cuochi, sommozzatori si alternano per garantire a chi fugge da guerre, persecuzioni e fame, il diritto alla vita. Tutte le operazioni di salvataggio vengono effettuate in accordo e sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana che garantisce la sicurezza delle persone salvate e assicura la possibilità di un approdo in un porto sicuro.

Questo fino al 18 marzo di quest’anno, quando la Open Arms, dopo aver sbarcato 216 migranti al porto di Pozzallo, viene posta sotto sequestro dalla Procura antimafia di Catania. L’accusa per il Comandante Marc Reige e la Capo Missione Anabel Montes, è di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Durante la missione infatti, l’equipaggio rifiuta di consegnare le persone salvate a bordo alla guardia costiera libica che afferma di aver ricevuto il coordinamento dell’operazione dalle autorità italiane e minaccia di sparare se non si obbedirà agli ordini.

La vicenda giudiziaria è complessa e non si è ancora conclusa anche se la competenza è passata alla Procura di Ragusa – cade infatti il reato di associazione a delinquere – che ha disposto il dissequestro della nave lo scorso 16 aprile ricostruendo la vicenda e affermando tre punti fondamentali: la ONG ha disobbedito non coordinandosi con i libici, esiste una zona Sar (ricerca e soccorso) libica, l’equipaggio ha agito tuttavia trovandosi «in uno stato di necessità» poiché la Libia non è un posto sicuro in cui sbarcare le persone migranti, ma un luogo nel quale avvengono violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani come riconosciuto da un recente rapporto ONU. Dunque la Libia non può garantire la sicurezza necessaria, ma è comunque incaricata di gestire i soccorsi in mare riportando le persone nel suo territorio? La situazione evidentemente non è chiara.

Riccardo Gatti, portavoce di Proactiva Open Arms, ha espresso in ogni caso soddisfazione per la decisione del giudice e ha dichiarato che la ONG continuerà le attività di soccorso in mare con la nave Astral che partirà presto per la sua 44esima missione.

Il tentativo di screditare o quantomeno di ostacolare il lavoro delle associazioni non governative che provano, in condizioni estreme, a salvare la vita delle donne e degli uomini che affrontano le acque del Mediterraneo nella speranza di un futuro migliore, non potrà fermare chi sa che la difesa della vita e dei diritti è l’unica battaglia possibile per affermare con forza il nostro essere prima di tutto esseri umani.

 

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